Il decorso dei paesaggi fragili
lascia un ricordo incline al mutamento
come dalla finestra le mobili
scaglie d’acqua, quando io mi addormento
per non sentire i gabbiani straziati
e il tramonto sembra avvicinarsi lento,
come quegli amici tanto aspettati
ma che poi non si fermano, non tornano,
non vengono.
Il paesaggio sul punto di spezzarsi
riempie questo breve tempo trascorso
di un enorme passato. Comincia a farsi
chiaro, nonostante l’asprezza del corso
scolorito delle nuvole, ciò che si addice
a chi sente l’angoscia ed il suo morso
e non si accontenta mai di essere felice.
Intravedo, dietro queste gocce
sugli occhi ed il prevedibile e buffo
deformarsi di tutto (delle rocce
legate al ricordo di un soffio
d’aria di mare, di questo sporco foglio
dove spoglio come un dio triste e brutto
niente altro che uno sfocato me stesso),
una vita dedicata all’orgoglio,
al compiersi di un sogno realizzatosi
presto ed in una forma troppo vera
per non scappare cogli occhi belli
da una gabbia tutta d’oro ed immensa
e correre verso questa destinazione:
conoscere il nome dell’amore.
Ho in testa il rinnovarsi di ogni sentimento,
di trasmetterlo con indifferente calore
un unico pensiero dove vivano
le forze della rabbia e del tormento:
se fossero fuse in un unisono
geloso di ogni altro suono esterno,
avrebbero la grazia di un affetto
intenso, di un dolce segreto
mai rivelato, e descriverebbero
il reale rigenerarsi della pace;
si offrirebbero di farci fiorire
la pelle, o gli occhi. All’orizzonte
esplode quest’idea struggente.