Raccontare storie.

Raccontare storie.

Queste righe sono state scritte per la versione completa del testo Brèsa desquarciàda/Brescia disvelata, racconto bilingue da cui è stato tratto il monologo teatrale in dialetto bresciano Brèsa desquarciàda, che replica regolarmente sulle scene bresciane dal 2007.

Finché vive il dialetto cambierà di chilometro in chilometro. La lingua ufficiale invece è già morta. Siamo tutti morti dall’alba del mondo, facendoci spazio nelle pieghe della terra. Non c’è vita straordinaria che non sia identica ad una vita comunissima. Abbiamo bisogno, però, di raccontarci storie inventate, semplicemente umane, perché nessuno è diverso, nei limitati meccanismi, a torto considerati enigmatici, dei sentimenti, provocati dal nostro animo per reagire ai segni del tempo sul nostro corpo; o ai fatali incontri tra gli esseri umani intrappolati nella logica, nel seguire di effetto a causa, nelle logiche del profitto. Ci parliamo in una lingua che a stento possiede ancora parole, parole che a stento possiedono ancora un significato: siamo ormai prossimi ad un’adulta ecolalia a cui affideremo i nostri più primitivi bisogni, dolenti di non riuscire a bastare a noi stessi, egoisti animali sociali nostro malgrado. La sfiducia nella comunicazione, tra di noi, è totale. La comunicazione è un contenitore vuoto che sta a galla nel mare delle frustrazioni, lo riempiono col cinismo i più spavaldi esseri umani, abbruttiti dal conformismo. L’unico atto rivoluzionario (la speranza) è raccontare storie con voce soffusa, per ricordarci, riscoperta una laicissima carità, la nostra finitezza. Di essa facilmente sapremo consolarci con le potenzialità del nostro sentire e della bellezza. Tutto ciò che ha senso è racchiuso nel raccontarci una storia.

 

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