Quello che dirò vale non solo per la poesia ma per ogni arte.
Un tempo avrei risposto istintivamente, sì, la poesia è una forma di resistenza. Ora capisco che questa risposta non è altro che frutto della malattia dell’orgoglio, per citare il, meritatissimo, premio Nobel 2016.
Ho capito che scrivere poesie non legittima a nulla, se si scrivono poesie (anche qualora fossero belle!) non si entra automaticamente a far parte di una civiltà più o meno letteraria, non si entra nel novero dei puri né di quelli che resistono. E’ la mia opinione personale, certo, e ritengo anche che non esista più alcuna autorità. Non credo nel beneplacito di nessuno. Oggi più che mai, quando sono cambiati moltissimo i parametri con cui i grandi editori scelgono le cose da pubblicare. La resistenza di fronte a questo forse è il proliferare di piccoli o meno piccoli editori, succede nella poesia, nella narrativa e nella musica. Gli editori e i direttori artistici infatti hanno sempre avuto una grandissima responsabilità, ciò un tempo li rendeva autorevoli. Credo che da questo punto di vista siamo in tempi di grande cambiamento.
Sarebbe bello, ritenersi ipercolti e ipersensibili (e ancor più bello quando ci ritengono gli altri così, magari altri a loro volta giudicati “persone molto importanti nel campo della poesia”) guerrieri dell’esercito della purezza, a difendere in prima linea la gente che noi riteniamo indifesa, la povera gente sprovveduta che è costretta a vivere nel mondo dei centri commerciali e delle bombe, per citare me stesso.
Credo che tutto ciò sia una brutta illusione, una perdita di tempo, un modo ufficializzato, banalmente riconosciuto (quando soltanto noi stessi abbiamo il dovere di riconoscerci, ogni giorno!) di affermarci, in ultima istanza, al di sopra degli altri.
Togliamo tutte queste meschinità e si riduce quasi del tutto persino l’atto stesso di pubblicare, e forse quello di scrivere.
Quindi capiamo che la domanda apparentemente semplice nasconde altre due domande, Perché si scrive poesia? e soprattutto: Che cosa è la poesia?
Non andrei tanto per il sottile: ogni componimento in versi è poesia. Volentieri metto in questo grosso sacco tutto questo, un grande grosso pesante sacco pieno di cose, alcune belle, alcune brutte. Mi piace vs. Non mi piace. Per quanto mi riguarda va benissimo così. Si diano da fare i critici a discernere, magari bontà loro senza tornare (molti lo vogliono fare) alla “legge” crociana Poesia vs. Non poesia. E facciano seguire alle stroncature (inutili quanto gli elogi altrimenti) un grosso lavoro a braccetto con gli editori. Meno poeti, meno critici, meno pubblicazioni. Tutto ciò credo sia impossibile. Non è forse la libertà la cosa più bella che esiste e che ai mortali è data?
C’è una sterminata produzione di poesia e una sterminata pubblicazione di poesia.
Tutti lo ammettono e tutti corrono ai ripari. Certo, io sono nel calderone però… non sono un editore a pagamento, sono un poeta pubblicato dalla tal rivista, sono un poeta e tu non puoi capire bene quello che volevo dire, sono un poeta ma di quelli che hanno studiato filologia ecc. ecc. tutti vogliono mostrarsi parte di un mondo perfetto e puro e soprattutto poco accessibile.
Qui comincia il mio sospetto, ma la mia voglia di conoscere, per contrasto, viene alimentata insieme alla mia curiosità, curiosità che forse è non resistenza ma ribellione. Quindi nella mia affermazione non c’è risentimento, preoccupazione o la premessa per correre ai ripari. No. Si scrive moltissima poesia, bene, se ne pubblica a dismisura, benissimo: non è quello che volevamo? Per quanto mi riguarda sì. Non credo nell’aristocrazia. Non credo nemmeno alla strumentalizzazione della poesia: poesia per i festival, poesia per le webzine, poesia per le riviste, poesia per le merende, poesia per le feste, poesia per gli uffici stampa, poesia per le canzoni, poesia per i circoli di lettura, poesia per i corsi di poesia. Se la poesia è resistenza, secondo me deve essere ribellione, quindi via da ogni logica corrente, di visibilità, di ricerca dell’assenso. Sono vicino a un paradosso? D’accordo, la resistenza e la ribellione stanno in bilico sull’assurdo e il paradosso. Provengono dal disagio e dalla solitudine e ad essi tendono a tornare. Perché sicuramente si scrivono poesie perché non crediamo alle favole della comunicazione e della condivisione, durano per poco e danno pochi frutti. Babilonia anzi NON dà frutti. Senza retorica, non possiamo credere a nulla se non nell’amore. Questo è ancora l’unico gesto anticonformista e disinteressato e cristianamente scandaloso. Tutto il resto è ormai un “mi piace” su facebook. Sono molto contento se vendo 100 copie oggi invece di una o nessuna. Non c’entra niente. Se ne vendo solo una tanto sono contento perché è meglio di niente. Se non ne vendo nessuna non mi capiscono, se ne vendo cento, gli altri diranno che sono banale o che ho santi in paradiso. Troviamo sempre un modo per salvarci se vogliamo. Ecco, si scrive poesia forse perché non vogliamo salvarci, oppure vogliamo salvarci solo in quel modo: con quel giro di parole lì, non in altro modo. Vogliamo salvarci a modo nostro, in quel modo che abbiamo scelto solo noi, perché in fondo crediamo in quel momento soltanto nel nostro talento. Perché in quel verso c’è il significato del mondo. Quindi la poesia dà una spiegazione, a volte dà una consolazione e sempre dà uno sprone alla vita. Tutto ciò deve essere la poesia, la poesia diventa una questione di vita o di morte. Ma sarebbe insostenibile, quindi tutto ciò va rimesso in discussione subito; nella vita, in altre forme espressive parallele, e nella poesia stessa, perché dire “poesia” non vuole dire niente: come è questa poesia? Secondo me non deve essere sempre fedele a se stessa: la poesia e il poeta sono traditori, perché la vita e il mondo hanno forme mutevoli: coesistono il gatto e il cane? Coesistono il gelo e la calura? Quindi la poesia è provvisoria; il poeta secondo me deve far coesistere le cose. All’interno della stessa poesia con la ragionata fusione di sillabe e singole lettere con i loro suoni diversi, per esempio, e nella giusta armonica o disarmonica successione nel comporre una raccolta un libro, con i rimandi interni e le interruzioni di ritmo.
Due parole che bergonzonianamente (e quindi poeticamente?) rileggo: (r)esistenza e ri-bellione, ri-bellarsi, mi ri-bello. Torno al bello, mi do ancora al bello. Mi do fino all’esaurimento al bello. Vado contiunamente al bello; quindi il bello porta con sé movimento. Correre cantare suonare ballare saltare in lungo e in largo, saltare da qui in un attimo all’altra parte del mondo. Il cervello è in movimento, la fantasia è in movimento, scrivere poesia è questo. Scrivere poesia è un’arte poverissima, una penna e un foglio e me stesso. Quindi correre, giù dalla torre d’avorio, correre lungo il perimetro circolare di questa torre, correre, correre tanto da solcare per metri e metri sotto terra questo perimetro, perché non si corre per arrivare in alto. La poesia è ribellione, la resistenza è non volere arrivare in alto. Non volere nulla. La resistenza è imparare a vivere amare scrivere senza volere nulla in cambio, proprio perché il nostro mondo non conosce altra legge dell’arrivismo, che ha tante forme, tutte malvagie e opprimenti. Concludo con un augurio: A tutti viene bene almeno una poesia, come dice un mio amico, bravissimo poeta, Giulio Maffii.