A Stefano che disse “Per bambini sarebbe bello Lennon”
A Federica per l’incantesimo
“Il mio vero desiderio è scrivere versi e fare qualche quadro a olio. Era così un bel sogno, vivere in un cottage e andarsene in giro nei boschi” J. Lennon
Quando conobbi John, lui aveva solo otto anni. Io ne avevo duecentoquarantadue più di lui. Chi ci avesse visto, non avrebbe saputo dire con precisione quanti anni ci separavano. Il motivo è molto semplice: io ero molto più basso di lui, ma avevo anche una lunga barba bianca. Ero un giovane gnomo, forte e divertente, sì, perché noi gnomi diventiamo deboli attorno agli ottocento anni di età, e noiosi solo dopo i novecento. Ero certamente alto, per essere uno gnomo, con la punta del cappello infatti toccavo la rotula del piccolo John. È stata un’esperienza straordinaria e fortunata conoscere il piccolo John, perché grazie a lui, che diventò mago e lo restò per tutta la vita, ebbi occasione di sbirciare qui nel vostro pazzo mondo più di una volta, e di ascoltare anche dal vivo le sue canzoni. Che forte quel ragazzo, e che peccato non sentirlo più. Ma non devo farmi prendere dalla nostalgia, né perdere troppo tempo, dato che non posso stare molto qui, e devo raccontarvi una storia ben più importante.
L’incontro con John fu piuttosto rocambolesco, o meglio dovrei dire “capitombolesco”, infatti improvvisamente mi trovai davanti uno spaventoso bambino rotolante che per un pelo non schiacciò me e tutti i miei attrezzi da lavoro, e anche la mia baracca tuttofare in cui ero costretto da qualche tempo a dormire, mangiare e lavorare. John però riuscì a frenarsi, si raddrizzò in un attimo e con aria seria disse: «Splendido, devo essere caduto». Mi raccontò dunque che, durante una passeggiata nel bosco, per ripararsi dalla pioggia, si era messo a correre in direzione di un altissimo albero che svettava e, scorgendo una forte luce che pareva collegare quest’albero con un grande masso lì vicino, senza pensarci due volte, vi si era tuffato, ritrovandosi lì in meno di un secondo.
Lì, ovvero a Sottoquercia, città-laboratorio creata e governata dalla Strega del Corno. Si trattava di una strega veramente brutta, antipatica e malvagia, come quasi tutte le streghe, ma con la particolarità che, quando si arrabbiava, le cresceva il naso a dismisura: per questo noi dicevamo che aveva un corno, anche se non aveva un vero e proprio corno… e meno male, altrimenti sarebbe stata ancora più brutta, talmente brutta da non poterla proprio guardare!
Questa strega aveva soggiogato con un sortilegio alcuni abitanti del bosco, che le servivano per i suoi malefici scopi: sfruttando le qualità di ciascuno di noi, ci costringeva a lavorare come schiavi per lei, e ciò le era possibile grazie ai suoi terribili poteri magici. Ma noi avevamo ancora la speranza di liberarci, e per fortuna arrivò John che ci diede una mano.
La strega, infatti, oltre a essere brutta e malvagia, non aveva poteri straordinari: ricordatevi sempre che la magia è un’arte che si impara con lo studio e l’esercizio, nessuno ha poteri naturali tanto forti da non poter essere sconfitti! Ma la strega era riuscita a mettere a punto un sortilegio capace di conferirle un incredibile carisma, con il quale aveva indotto tutti noi a seguirla in questo posto, da lei creato con un altro incantesimo, e chiamato ormai da quasi cento anni Sottoquercia. Il terzo incantesimo era quello, tremendo, chiamato “del lavoro costante”, che ci teneva intrappolati a lavorare tutto il giorno e tutti i giorni per lei, giusto con un’ora libera per mangiare e qualche ora la sera per dormire.
Noi gnomi eravamo obbligati a costruire marchingegni malefici, dalle bacchette magiche alle catapulte sparanoia, dai dolcetti bistrattanti alle forbici linguacciute, oltre a pianoforti mordaci, griglie biforcute, anelli sbattitempo, catrame incarcerante, mordisogni, fiaccavita, premitesta, svogliagole, e molto, molto altro, purtroppo!
Erano stati inoltre rapiti e privati della loro libertà tutti gli uccelli del bosco, obbligati a intrecciare, tra un ramo e l’altro, speciali finissime reti di legnetti, fango e piume, come enormi nidi… In questo modo tutti i sogni belli, le speranze e soprattutto i desideri dei bambini e dei nonni vi restavano intrappolati, e ciò rendeva quelle persone svogliate e annoiate!
Infine erano state catturate tutte le talpe che, scavando cunicoli sotterranei, servivano alla strega per avvicinarsi il più possibile alle stanze dei bambini, così che la sua energia malvagia diveniva ancora più potente, perché s’infiltrava nelle fessure, tra le piastrelle, nei rubinetti di ogni casa in cui viveva un bambino.
Avrete capito che la luce che ingannò John quando voleva soltanto ripararsi da quell’improvviso temporale non era altro che una malefica trappola per attirarlo giù a Sottoquercia. La strega infatti aveva bisogno di un umano, meglio se un bambino curioso e intelligente come John, per fargli fare qualcosa di ben preciso: scrivere, o meglio trascrivere centomila formule magiche, prigioniero di un incantesimo che gli avrebbe reso incomprensibili le parole che lui stesso trascriveva. Prima dell’arrivo di John, Sottoquercia era una vera Babele: nessuno capiva la lingua dell’altro, e ciò non ci permetteva di comunicare e organizzare una rivolta.
John abitava ai tempi con la zia Mimì, stava bene, era sereno e quando poteva gli piaceva molto andar per boschi. Ma sempre, arrivato vicino alla grande quercia, quella con accanto il grosso masso pieno di muschio, si bloccava. Era una specie di paura, non si sa. Lui si fermava lì, sedendosi nel mezzo del sentiero. Non passava mai nessuno e lui sedeva lì in mezzo. Davanti, la quercia e il masso, attorno, tutto il resto del bosco. Il sentiero proseguiva, più buio, perché gli alberi che lo costeggiavano, in cima, si abbracciavano, incrociando i rami e formando una sorta di calotta naturale che, però, in alcune ore del giorno, creava un’ombra spettrale.
Mary, un’amica di John, aveva saputo di questa sua fobia, perché un giorno avevano percorso insieme il sentiero. Ebbene Mary, quella piccola vipera, si era messa a ridere, tutta irrispettosa nei confronti del nostro eroe, dicendogli che quella strana cupola nera e verde, così spettrale, scompariva dopo pochi passi, dopo che il sentiero faceva una curva, anche se non si capiva bene il perché, ma che funzionava così, e anzi non era proprio una bella idea fermarsi sempre in quel punto, perché, dopo poche centinaia di metri, il bosco diventava una bella radura piena di sole e di fiori, e lì sì che ci si poteva fermare a giocare! Ma niente: John, il noioso strano piccolo John, si arrestava sempre lì.
Diciamo la verità: a John non importava proprio niente delle cantilene di Mary la smorfiosa, anzi, continuò a fermarsi lì, e prese anche l’abitudine di portarsi il blocco di fogli per disegnare. Quel punto del bosco era bellissimo da raffigurare, era misterioso, gli faceva paura, non voleva proseguire, ma ci voleva andare tutti i giorni. Gli altri bambini si erano fatti tutti la stessa idea su John: era bello giocare con lui, inventava sempre cose divertenti e originali, ma non si doveva mai andare in quel bosco con lui, perché lì faceva dei maledetti capricci, peggio di una femminuccia, e non voleva mai oltrepassare quel punto del sentiero. Il destino era però già scritto: John proprio lì avrebbe dato il meglio di sé, nella circostanza più strana (e pericolosa) della sua vita di bambino!
Infatti, la sera del temporale, con quel ponte di luce, tutto cambiò: anche John cadde preda della Strega del Corno e cominciò per lui una nuova bruttissima vita. Si svegliava, andava allo scrittoio, si sedeva, prendeva la penna d’oca, la intingeva e trascriveva da un librone all’altro; improvvisamente alle 13 sentiva un brivido nel corpo, ritornava allora davvero in sé, sentiva una grande fame e andava a mangiare assieme alle talpe, agli gnomi e agli uccellini. Poco dopo, però, ripiombava nello stesso intontimento di prima, tornava allo scrittoio e ricominciava a trascrivere, così fino a sera, quando era troppo stanco per fare qualsiasi altra cosa che non fosse sdraiarsi sul pagliericcio e dormire. Poi, la mattina seguente, tutto si ripeteva da capo. Una vita con uccellini che non cantano, ma lavorano per una strega, è una vita che non si può sopportare.
La Strega del Corno però commise un errore, perché era stupida, come molti malvagi: non era riuscita a rendere perenne il sortilegio inflitto a John, perciò aveva bisogno di ripeterlo ogni mattina. John, se aveva una qualità, era quella di volare con la fantasia e distrarsi. Una mattina ebbe la geniale idea di fantasticare con grande intensità, mentre la strega ripeteva la formula di magia nera che l’avrebbe reso incapace di capire le altre formule che doveva trascrivere da un libro all’altro. Inventò una storia dettagliata di particolari, una storia senza capo né coda, che cominciava addirittura con una canzone un po’ assurda che faceva così:
Se mangi l’albicocca
stai in una filastrocca
se parli col legnetto
forse sei Geppetto
se canti una canzone
ti piace stare al sole.
Lui ripeteva tra sé e sé questi versi bislacchi, mentre la Strega del Corno recitava con una stridula voce:
Sista rista pista
ai bambini sparo a vista
Abracadabrero
dici c’ero ma non c’ero
leggi le ricette
ma non capisci niente.
Funzionò. Con grande stupore, dopo molti giorni di schiavitù, John si emozionava come quando era a casa e giocava, non era più quella specie di zombie-schiavo che l’aveva reso la strega. Era, mentre trascriveva, perfettamente consapevole di quello che faceva, e riusciva a leggere e capire tutto, nonostante la difficoltà di quel che c’era scritto. Era un po’ come leggere una cosa difficile, un testo universitario o un bollettino economico, ma niente di insormontabile. L’altra realtà di cui si accorse fu che gli abitanti di quel bosco erano anch’essi prigionieri: allora John cominciò a meditare il modo di liberare tutti.
Pensò che avrebbe potuto utilizzare il metodo che aveva funzionato per lui anche per noi gnomi e per le talpe. Quindi, ammirerete la genialità, capì che aveva bisogno di un elemento distraente, qualcosa che in modo potente avrebbe potuto unire nella distrazione, nella fantasia, tutti quanti. Era una scoperta molto rischiosa e difficile da mettere in atto, soprattutto perché, se riusciva a immaginare qualcosa degli uccellini, avendoli a lungo scrutati e ascoltati nel bosco, John non sapeva quasi nulla di come vivono le talpe: sapeva che erano un po’ cieche, ma nient’altro.
Passarono i giorni e John ebbe con sempre maggior precisione la conferma che il suo stratagemma poteva funzionare. Decise per prima cosa di comporre alcuni versi bizzarri da far imparare agli gnomi, e poi avrebbe pensato a come fare con gli uccelli…
Gnam gnam fa lo gnomo
sembra vecchio come un uomo
sembra grande come un dito
ogni gnomo è assai gradito.
Un giorno John, durante l’ora di pranzo, riuscì a passarmi un biglietto con questa filastrocca stupidina. Ma non fu in grado di spiegarmi nulla, eravamo troppo affamati e frettolosi. Il giorno dopo riuscì ad abbassarsi all’altezza del mio orecchio senza farsi troppo notare e mi bisbigliò: «Imparala a memoria e prova a ripeterla dentro di te per un giorno intero». Ero stupito ma anche orgoglioso del fatto che John avesse scelto proprio me per il suo esperimento: forse eravamo diventati, per quanto possibile, amici, da quel suo arrivo capitombolesco che quasi mi schiacciò.
Feci come mi disse e fui felice di notare che qualcosa stava cambiando in me, mi sentivo sempre più lucido, ma era difficile pensare sempre a quella filastrocca; allora, per conto mio, per cambiare un po’ e per fantasticare di più, la continuai:
Ahi ahi fa il bambino
col suo odore di piumino
a noi piace odor di terra
e non vogliamo mai la guerra.
Dopo qualche giorno mi sentivo davvero diverso, era come se prima fossi sempre mezzo addormentato. Mi resi conto allora che riuscivo a smettere di lavorare! Maledetta strega! Riferii la cosa ai miei compagni gnomi e ci facemmo una bella risata. Noi gnomi però siamo gente che si fa prendere dall’entusiasmo ed esagera: quando vidi Galvano Cantagallo sdraiato con un filo d’erba in bocca che zufolava la Canzone dei Viandanti, mi venne paura e gli sibilai: «Pazzo, non dobbiamo farci scoprire, rimettiti al lavoro!» Per fortuna la strega stava provando le gallerie nuove delle talpe. Era una cosa che ultimamente faceva spesso, perché le talpe, essendo cieche, facevano spesso, alla cieca, gallerie cieche…
Raccontai, di notte, la cosa a John, e per un pelo stavolta la strega non ci scoprì, perché stava passando di lì: in quelle ore notturne la Strega del Corno veniva a tirare le gambe agli gnomi che russavano.
Il giorno dopo John mi disse che quello stelo d’erba che suonava gli aveva fatto venire un’altra idea: per coinvolgere gli uccelli bisognava cantare!
«Grande John! Hai ragione! Ma non possiamo fare delle prove, non siamo mica a teatro! Dobbiamo essere sicuri!»
«Hai ragione, Vitilelbone Mandracchi! (…sì, è questo il mio nome, insomma, noi nani abbiamo nomi del genere, cosa c’è di male, pensate che sia un bel nome John?!) Rischieremo, ma sembra una buona idea, e se ci pensi è anche logica: tutta questa magia è molto logica, diabolicamente logica e la strega non brilla certo di fantasia, è soltanto malvagia. Guarda: soggioga le talpe, ma va tutti i giorni a controllare quello che fanno, per poi tornare a casa sempre scontenta di loro. È malvagia, cattiva e ripetitiva!»
«Senti John, va bene, noi gnomi ci siamo liberati con le parole, rischieremo e intoneremo in un canto altre parole per gli uccelli che capiranno il messaggio grazie alla melodia… ma con le talpe come facciamo? Sono cieche e, per quanto ne so io, sono anche mezze sorde… santo cielo, ma che ci fa al mondo un simile animale?»
«Dai Vit (mi chiamava così qualche volta per abbreviare), non fare il presuntuoso, noi esseri umani potremmo dire la stessa cosa di voi gnomi e, se devo dirtela tutta, abbiamo sempre pensato che voi non esisteste, anch’io credevo che foste solo frutto della fantasia degli uomini, come Babbo Natale, che purtroppo ho scoperto non essere altro che il papà di Mary…»
«Il papà di Mary? Ma John guarda che…»
«Lascia perdere, sto pensando, ci vediamo domani.»
Il giorno dopo ci fu il terremoto. O meglio, tutti scappammo temendo che ci fosse il terremoto, non soltanto noi ma anche le talpe! E anche la strega si precipitò nella nostra zona di lavoro:
«Che succede, piccoli farabutti?!» e, sconvolta da quella confusione, la Strega del Corno dovette utilizzare l’appendice 242, comma 20bis del sortilegio che ci aveva soggiogati…
Magia del soggiogare
la migliore da affibbiare
ma se qualcosa ti va storto
e l’incantesimo ha il fiato corto
queste rime devi sapere
per riportarli in tuo potere.
Allora noi tutti, con uno sguardo d’intesa, ripetemmo la nostra filastrocca, ma fu davvero difficile! Alcuni la recitarono ad alta voce e ciò fece stupire e incaponire ancora di più la strega! Alcuni vennero di nuovo ipnotizzati e si buttarono addosso a chi recitava la filastrocca, se le diedero di santa ragione, una rissa fratricida! Per fortuna, la maggior parte di noi fece come me: ripeteva mentalmente la filastrocca, guardando la strega negli occhi senza paura, finché ci venne un terribile mal di testa, e la strega credette di averci soggiogati, così se ne andò per dare una “sonora” lezione alle talpe nei cunicoli. La malvagità fa molti danni al cervello, ricordatevelo!
La sera John mi raccontò che non si era trattato di un terremoto, ma soltanto delle vibrazioni che i suoi piedi avevano prodotto, perché per un po’ aveva battuto il tempo con forti pestate ritmicamente intervallate. In questo modo aveva capito ciò che poteva distrarre le talpe: le vibrazioni nella terra e il ritmo!
Non dimenticherò mai quella sera, io e John ci guardammo negli occhi, non c’era bisogno di dire nulla: eravamo pronti.
L’indomani tutti fingemmo di essere come al solito ipnotizzati e automaticamente dediti al lavoro che la Strega del Corno ci imponeva. John fece una pallina di carta e ce la buttò, la srotolai immediatamente: era il testo della canzone. In un battibaleno tutti l’avevamo. Ad un certo punto John cominciò a battere il piede:
PUM PUM PUM PUM e la terrà vibrò.
Poi cominciò a cantilenare, lui enunciava e noi facevamo l’antifona… il ritmo cresceva e si trasformava in una danza primitiva, solare e piena di energia:
PUM PUM PUM PUM
A noi piace lavorare
ma non come ballare
e non per i tuoi intrugli
che ai bimbi fan subbugli
che mentre stan dormendo
si svegliano piangendo.
Ci basta questo canto
per rompere l’incanto
malvagio sortilegio
scappiamo dal collegio.
Che brutta la prigione
ci hai tolto ogni emozione
ci hai tolto cani e gatti
non siamo soddisfatti
ci hai tolto pasta e pane.
Ci piace lavorare
ma non col tuo progetto
malvagio e assai negletto
un pessimo concetto
e noi non ci crediamo
e noi non lavoriamo
e adesso ce ne andiamo
così ci liberiamo!
Il ritmo martellante di PUM PUM PUM PUM produsse straordinarie vibrazioni, che indussero le talpe a scappare dai cunicoli in tutta fretta, investendo la Strega del Corno, che si trovava proprio lì vicino per controllare che lavorassero come voleva lei. Una volta arrivate in superficie, le talpe si misero a ballare con gli gnomi; John, vicino a loro, sembrava un gigante buono che ballava e rideva e guardava in alto aspettando che anche gli uccelli si unissero alla rivoluzione, e così avvenne. Alcuni uccelli cantarono la semplicissima melodia composta da John e poi cominciarono a produrre splendide variazioni e contrappunti, così quella che era una martellante filastrocca divenne splendida canzone!
La Strega del Corno raggiunse i suoi ex schiavi gridando come una forsennata, era arrabbiatissima e il naso le stava crescendo sempre di più, sembrava dover scoppiare da un momento all’altro! Gli uccelli imbrigliarono la strega con i reticoli arborei che lei li costringeva a realizzare per la sua rete malefica, e John gridò: «Liberi tutti!»
Si fece una stupenda festa danzante! Era bello essere contenti e lucidi, a tutti sembrava di avere vissuto un incubo o un’avventura da sonnambuli… E dopo tanto festeggiare, scesa la notte, l’ultima notte di Sottoquercia, tutti andarono felici a riposare.
Il giorno dopo, John si ritrovò nel suo bosco, a un passo dal suo sentiero: accanto a sé, il blocco dei disegni, la quercia, il grande sasso coperto di muschio. Aprì gli occhi: l’aria era fresca e il sole sorgeva indolente ma sempre più caldo. Lontano, molto in alto, gli uccelli cantavano e formavano un tappeto magico di suoni, da cui filtravano attutiti tutti gli altri rumori del mondo, prodotti dagli uomini onesti che lavorano e vivono liberi: i rumori della città, della campagna, trebbiatrici, fabbriche, sirene, voci, baci, altoparlanti, radio, televisioni…
Dopo essersi stiracchiato, John vide un grosso pacco regalo appoggiato alla quercia, ci si buttò a capofitto, strappando tutta la confezione… era una bellissima chitarra! Aveva una dedica incisa: “Al piccolo John, perché la tua canzone ci ha cambiato la vita!”, e poi c’erano cento firme stentate, tra cui anche qualche x, tutte le firme di noi gnomi, uccelli e talpe che, per ringraziarlo, avevamo costruito una chitarra magica.
John tornò felice a casa con il blocco dei disegni sotto braccio e la chitarra magica in spalla, canticchiando PUM PUM PUM PUM, la sua prima canzone, scritta per aiutare gli altri, in un mondo stregato. Da quel giorno John si dedicò tantissimo alla chitarra e al canto, scoprendo di avere un ottimo orecchio e riuscendo a scrivere parole adatte alla musica con grande originalità e disinvoltura. La zia Mimì, che si prendeva cura di lui, ma che era un po’ preoccupata che quella chitarra fosse così importante per John (non lo vedeva mai studiare), un giorno gli disse: «La chitarra va bene, John, ma non ti darà certo da vivere».
Le cose per fortuna andarono diversamente: tutti noi gnomi, anche quelli con più di novecento anni, hanno ascoltato le canzoni di John, facendo capolino ogni tanto nel vostro mondo. Poi però non abbiamo più saputo nulla di lui, ci capita spesso con voi umani: a un certo punto non vi si vede più e non capiamo bene perché. Ma sono felice che John sia ancora ascoltato, ricordato e amato: ovunque sia lui ora, ha cantato sempre per tutti noi.